Blog Disability

Dici, otto? No, DICIOTTO.

Progetto senza titolo

Anche quest’anno sono qui per mettere nero su bianco un po’ di pensieri su questo giorno. Per prima cosa volevo ricordare la perdita della nonna, l’anno scorso, proprio oggi, il mio 11 settembre. Se ognuno di noi ha un giorno sfortunato, nella vita, beh questo è il mio, da ormai 18 anni a questa parte.
Non solo mi ha tolto la mia indipendenza, ma anche una persona a cui tenevo tantissimo e credo sia stato davvero crudele.
Io, come sapete, nonostante diversi picchi di “impulsività“, sono una persona molto molto molto molto riflessiva, forse troppo. Penso alle cose miliardi di volte, rifletto sulle parole dette, sui gesti fatti e ricevuti, sulle promesse, sul rispetto, sui valori della vita, sull’amicizia, sull’amore, rifletto sul tempo che passa, sulle cose che sento che iniziano a pesare e quelle che invece cominciano a scivolarmi addosso; insomma, su tante cose. Quando arriva gennaio sento un’ansia pervadermi sotto pelle e non riesco a togliermi questo senso di disagio in nessun modo. È un mese che non sopporto, non ci posso fare niente. Per prima cosa mi guardo dentro, poi mi guardo indietro e non so descrivere cosa sento e vedo.
Davvero ho affrontato tutto questo? Davvero sono passati 18 anni? Davvero quella ragazzina, ormai grande, sono io? Davvero sono riuscita a “superare“ tutti gli ostacoli che mi si sono presentati davanti ed essere ancora qui, comunque, con il sorriso? Alle volte mi sembra di no. Ormai racconto questa cosa come fosse accaduta a qualcun altro, come se non ci credessi nemmeno io, come se tutto quanto non mi avesse lasciato cicatrici enormi interne che, molte volte, fanno ancora male.
Ci sono giorni in cui vivere viene spontaneo, altri dove bisogna dare una spinta e ingranare la marcia giusta. Rifletto anche sul fatto che se nella macchina ci sono sei marce, tra cui cinque che vanno in avanti e una indietro, qualcosa vorrà dire, no? Bisogna andare avanti, sempre.
Una mattina come tante altre sono andata a scuola e sono tornata a casa, in pratica, un anno e due mesi più tardi, dopo aver affrontato cose difficilissime e aver visto diversi ospedali.
La vita, quella puttana, scusatemi il termine, mi ha messa a dura prova. Se fossi arrivata in ospedale 10 minuti dopo, probabilmente, non sarei qui a scrivervi (me lo disse anche il primario della rianimazione), ma se fossi arrivata prima? Sarebbe cambiato qualcosa? Chi lo sa. I miei 31 anni sono caratterizzati dal punto interrogativo, in ogni campo. È frustrante. Non capire, non sapere, non avere risposte, dover lottare per avere quello che per diritto mi spetterebbe. Invece no, è un continuo di domande, incertezze, cose non chiare, dubbi, perplessità e quanto altro.
Ripeto sempre che ricordo tutto come fosse ieri: i miei compagni di classe che bussavano alla porta dell’infermeria, i professori in fondo ai piedi che mi massaggiavano e io non sentivo niente, l’ansia e l’attesa che arrivasse qualcuno a portarmi via di lì, al sicuro, la grande paura di non rivedere più i miei genitori e di abbandonare la vita prima di averla vissuta almeno un po’.
Dico sempre che all’età di 13 anni una ragazzina dovrebbe essere spensierata, dovrebbe giocare, non pensare al futuro, mentre io mi sono ritrovata a fare i conti con flebo, cateteri, tac, risonanze, cannule, clisteri, trita farmaci, sonde, saturimetri e quanto altro. Poi mi viene detto: “sei fragile, non riesci ad affrontare una determinata situazione“. Beh, mettetevi le mie “scarpe“, i miei panni, e provate ad affrontare ogni singolo istante che ho attraversato io imprecando, piangendo, stringendo i denti, sorridendo, andando avanti nonostante tutto e nonostante tutti. Anche quando non ne potevo più, anche quando avrei voluto che quel giorno avesse avuto un altro finale, anche quando tutto mi sembrava più grande di me. Adesso mi porto avanti gli attacchi di panico senza pensare a cosa ho affrontato. Di cosa dovrei aver paura, dopo tutto quello che mi è successo? Di niente. Me lo ripeto sempre, ma essendo una persona emotiva, molto molto molto sensibile e per certi versi troppo empatica, faccio fatica a non soffrire per cose “meno importanti“. E in questi anni ne ho affrontate tante di cose minori che mi hanno ridotta in piccoli pezzi, quasi inesistente, ma il tempo aiuta. Sembra una cavolata, anche io non ci credevo nonostante tutto quello che ho vissuto, ma è così. Ti sembra di morire, di non poter andare avanti, ti sembra di soffocare, di non poter fare a meno di certe cose o persone e poi, piano piano, ti ricostruisci, pezzetto per pezzetto, anche se rimangono le crepe e si vedono. Ho vissuto la felicità della patente, dei primi amori, delle prime serate in discoteca e tante altre cose negli occhi degli amici e, per me, era come un pugno nello stomaco ogni volta. Poi, con il passare del tempo, per fortuna, questi avvenimenti sono capitati anche a me. Tranne la patente, ovviamente. Ho iniziato a costruirmi la mia dimensione, in coppia. Io e la mia carrozzina. Tutte le cose si portano sempre avanti in due, lei aiuta me ad essere indipendente e io faccio funzionare lei. Buffo, vero? Lo dico senza vergognarmi, ancora non ci siamo sposate: ho ancora molti dubbi, perplessità e cose da sistemare dentro di me, da metabolizzare. Ci arriverò, con il tempo. Quando la mia testa ha iniziato a correre più forte delle mie gambe, mi sono seduta e ho dovuto nascere per la seconda volta. Quella più dura, più difficile, più “consapevole“, dove a decidere se continuare o meno sei tu, non gli altri.
In questi anni ho dovuto affrontare i pregiudizi, l’ignoranza, la non conoscenza e le persone che si fermano davanti alla copertina senza voler leggere nemmeno la prima pagina del libro. Con il tempo, però, ho imparato che il problema è loro. Il limite non è il mio, io sono una persona come tante altre, seduta, mentre loro sono persone limitate mentalmente e credo sia molto peggio.
Mi spiegate perché chi è diversamente abile non può avere una vita normale? Chi lo dice? Chi stabilisce chi e cosa è normale o meno? Chi decide questo? Ci sono persone che si prendono la briga di attaccarti un’etichetta in fronte, come sulle banane, pensando di definirti quando, in realtà, di te non sanno niente.
In questi 18 anni mi sono chiesta miliardi di volte: “perché a me?“, ma non ho mai avuto risposta. Dio? Caso? Destino? Non lo so, sta di fatto che mi ritrovo a vivere una vita nuova, differente.
Mi sono ripromessa di superare un po’ delle tante paure che ho, di trovare la forza per andare avanti sempre e comunque, anche quando le persone cercano di metterti i bastoni tra le ruote e di spezzarti il cuore, l’anima e le ossa.
Vorrei dirvi che con il tempo il dolore diminuisce, che le cose si metabolizzano in maniera più semplice, ma non sempre è così. Ogni cosa ha il suo tempo e nessuno, ripeto nessuno, ha il diritto di dire quanto esso debba essere. Questo, secondo me, vale per ogni situazione che capita nella vita, piccola o grande che sia.

Io sono ancora alla ricerca di quella sorta di equilibrio che, prima o poi, riuscirò a trovare. Già, rispetto ad un po’ di tempo fa, qualcosa è cambiato, anche se ho ancora tanta strada da percorrere. Voglio avere la forza di andare avanti, di sorridere, voglio vivere a pieni polmoni facendo scorrere, nelle vene, la vita. Ho voglia di correre, con la testa, di saltare dalla felicità, di emozionarmi, di sentirmi apprezzata, di essere accettata per quella che sono, di essere amata senza nessuna corazza ed ho voglia di vivere, non sopravvivere.

Questo è il mio obiettivo e ce la farò, anche quando penserò di non farcela più.

Progetto senza titolo

Un saluto alla mia nonna a cui mando un abbraccio gigante, da qui a lassù.

Giusto, volevo dirvi che sono indietro di un po’ di post, del blog, ma ho avuto una perdita, grossi problemi in famiglia che ci sono ancora e non so come si risolveranno e qualche inceppo con la macchina fotografica che sto cercando di rimediare. Arrivo, in ritardo, ma arrivo. Perdonatemi e abbiate pazienza.

Un abbraccio

Ele ♡

You Might Also Like

No Comments

Rispondi

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: