Diciassette anni fa, quando la mia testa ha iniziato a correre più forte delle mie gambe ho dovuto prendere una decisione, mi sono seduta. Sia chiaro, non per mia volontà, ma così è stato.
Ogni anno sento il bisogno di scrivere, nero su bianco, alcuni pensieri per questo mio “giorno nero“. Come se fosse una liberazione, come se mi togliessi un piccolo mattoncino dalle spalle per sentire meno il peso di tutto ciò. O forse perché scrivere è un modo diverso di piangere.
Ebbene sì, sono passati 17 anni da quando il destino, il caso o chi per me ha deciso di cambiare radicalmente la mia vita.
Ricordo tutto come fosse ieri anche se, sinceramente, alle volte mi viene da chiedermi se sono io la protagonista di questa storia o no. Poi mi guardo e mi do la risposta da sola.
Nemmeno il tempo di accorgermi di cosa stava accadendo che io, in un attimo, ero diventata un’altra. Una sconosciuta anche per me stessa.
In questi anni è stata dura ripresentarsi, in primis con me e non nego che lo è tuttora. Diciamo che non sono ancora arrivata alla fase “piacere sono Eleonora“. Sono ancora a: “ciao, sono Eleonora, una ragazza in carrozzina“, perché sì, questo è il mio biglietto da visita. Bello o brutto che sia, è così.
È diventato quasi come un deterrente. Chi passa al secondo step, diciamo così, può essere valutato. Per gli altri, nessuna considerazione.
All’età di 13 anni una ragazzina dovrebbe avere in mente tutto tranne che flebo, cateteri, saturimetri, tac, risonanze e quanto altro. Questa esperienza mi ha fatta crescere in fretta, e lo sta facendo tuttora.
Ho bypassato degli step che, per una persona di quell’età, sono grandi conquiste. Ho visto la felicità di prendere la patente negli occhi degli altri, ho sentito raccontarmi le prime esperienze su diversi campi dalle mie amiche molto tempo prima che le affrontassi io, dunque, ci stavo male. Molto male. Ogni parola era un pugno nello stomaco, ma ridevo. In quel momento dovevo essere contenta per loro, non dovevo pensare a me. Quello veniva dopo. I conti con me stessa li facevo sempre a fine giornata, in silenzio, come una persona che spunta le cose fatte o non fatte sulla lista preparata la sera prima. Ecco, più o meno così.
In questi 17 anni la domanda più frequente è stata: “perché a me?“
Ci sono persone che risponderebbero perché riesco a sopportare questa croce.
Perché il destino è stato crudele con me.
O perché non c’è una motivazione valida.
Io, sinceramente, non riesco a darmi ancora una spiegazione e, forse, ci ho anche un po’ rinunciato. È vero, avrei un perché, ma non cambierebbe molto. Non fuori.
Poi, beh, ho dovuto affrontare l’esterno.
Nel 2018 c’è ancora tanta ignoranza, purtroppo. La disabilità non è un mondo a parte, ma è una parte del mondo. Questo si dovrebbe insegnare ai bambini, ma soprattutto dovrebbero apprenderlo i grandi.
Mi viene da ridere perché, alle volte, mi è capitato di andare da qualche specialista e raccontavo ciò che mi è accaduto. E lui cosa faceva? Rispondeva guardando mia madre. Oh, santo cielo, sono io la persona presa in causa, devi parlare con me. Ci vuole molto per capirlo? Ho facoltà di parola e, forse, anche molta più intelligenza di te che hai studiato per avere quel camice. Per essere a contatto con persone con dei problemi, forse meno gravi dei tuoi.
Ho dovuto affrontare i pregiudizi, l’ignoranza, la non conoscenza e tutto questo, tuttora, fa male. Fa male perché non solo devi lottare con te stessa, ma anche contro ciò che pensa la gente, sbagliando. Le cicatrici che portiamo, molto spesso, sono create dalle persone che incontriamo nella vita. Quelle che ci guardano con indifferenza, dall’alto al basso. Con sufficienza.
Il luogo più comune è che una persona diversamente abile non possa avere una vita normale. Ma chi lo dice? Chi stabilisce chi e cosa è normale o meno? Chi decide questo?
Come ho sempre ripetuto, tutti gli anni, ci vorrebbe un’educazione alla disabilità. Per evitare, così, questi spiacevoli accaduti. Così da insegnare ai bambini, sin da subito, che non c’è diversità o malattia, ci sono storie e storie. Tutto qui.
Io sono attaccata alla vita con le unghie e con i denti, cerco di mangiarmela. Sono sincera, mi ha messa a dura prova, durissima, ma nonostante tutto non riesco ad odiare tutto quanto. La vita è una e va vissuta, nel migliore dei modi. Come uno può e riesce, insomma.
Io voglio trovare il mio piccolo posto nel mondo, voglio sentirmi soddisfatta della mia vita, voglio poter dire di aver fatto tutto quello che potevo e volevo, voglio raccontare la mia storia con gli occhi lucidi, di felicità. Voglio vivere a mille ogni cosa, ogni persona, ogni situazione.
Nonostante le conseguenze che ciò può portare. Delusioni, momenti di depressione, stanchezza, nervosismo, pensieri. Ma è comunque vita.
Potrei stare qui ore ed ore a dirvi che con il tempo si metabolizzano le cose, che si impara ad affrontare tutto, che esso sistema le cose e si sente meno dolore, ma non è sempre così. Purtroppo. Sono piccole cose che possono portarti indietro di minuti, giorni o anni.
Si impara a convivere con ciò che si ha e si cercano modi alternativi per colmare ciò che non si ha.
Come ho sempre detto, la vita è un tunnel. Bisogna saperlo arredare nei momenti bui, quando tutto sembra perso.
Io, in tutto questo, sto cercando una sorta di equilibrio che, prima o poi, troverò. Voglio avere la forza di andare avanti, di sorridere, di cavalcare la vita indipendentemente da ciò che dà e ciò che toglie. Voglio vivere, e voglio farlo a pieni polmoni. Facendo scorrere, nelle vene, adrenalina. Vita.
Con questo, non voglio insegnare a vivere a nessuno, anzi. Come ho detto all’inizio, è un modo per sfogarmi. Per rendervi partecipi dell’Eleonora e non della ragazza in carrozzina.
Un abbraccio,
Eleonora.
No Comments